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Allorché, però, dopo trent’anni, la direzione della rivista – poco anarchicamente – ha rifiutato la pub­­blicazione di un articolo, la collaborazione si è interrotta. Accame ricostruisce qui la vicenda, ne trae amare conclusioni e ne approfitta per raccogliere in un solo volume tutti i suoi contributi.


indice del volume
Introduzione

  • Anno 1989
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  • Anno 2019

  • Indice dei nomi
  • Indice delle opere citate
  • Indice dei Film citati

  • Il primo articolo pubblicato su Rivista A:

    anno 19 nr. 162

    marzo 1989

    In memoria di Coniglio Ruggero

    Ora che i giornali, televisioni ed echi di popolo plaudente cominciano a tacere, ora che il celere oblio dell’attuale mondanità sta per appiattirlo nel magazzino delle meraviglie che furono, posso dirvi che Roger Rabbit – il gran film di Natale e dintorni – lo sono andato a vedere anch’io. Ci sono andato e ne ho ricavato una noia mortale, un’afflizione che sommata alle altre riservatemi dalle festività avrei preferito evitare.
    Mi sono annoiato, quando non innervosito – ho anche un po’ di vergogna a dirlo, fra gli osanna di critica e pubblico (osanna, peraltro, l’uno scaturito dall’altro, come sempre quando tanta coscienza è mossa da tanto quattrino) – e qui di seguito cercherò di rendervene conto.
    So benissimo, sia chiaro, che Roger Rabbit è probabilmente il più alto esempio di raffinatezza tecnologica in fatto di cinema di animazione; so benissimo dei tanti miliardi investiti e di quanta pazienza neoartigianale questo R.R. sia figlio; e so anche benissimo come l’accoppiata Spielberg-Zemeckis, produttore e regista sia (spesso e non sempre) garanzia di spettacolarità e intelligenza. Ho colto, di sequenza in sequenza, la miriade di citazioni argutamente allusive ai film che hanno fatto storia; non mi è sfuggita neppure la benemerita morale di cui lo sviluppo narrativo si fa portatore: morale che attribuirebbe al riso virtù salvifica in una società malata di tetraggine (come se il tetro non ne avesse ben donde) e morale che, in quanto accomunante oggidì un arco costituzionale che va da Eco a Banfi (Lino), ho più che in sospetto. Ma, nonostante tutto ciò, non mi sono divertito e mi sono, invece, annoiato a morte. O meglio, non è del tutto vero quello che ho detto: mi sono invece divertito moltissimo nei primi cinque minuti di film, quelli dedicati ad un cartone animato, un cartone animato puro, tradizionale, tutto e solo cartoons, assolutamente esilarante, delizioso. Poi, come il cartoon lascia il posto all’ibrido, alla coesistenza narrativa e rappresentativa di cartoons ed umanità, prima addio curiosità, poi addio divertimento: in me è subentrata noia e mortificazione.

    Perché. Una prima spiegazione potrebbe essere tentata così: ogni qualvolta le soluzioni tecnologiche raggiungono tali livelli da sotterrare in secondo piano l’elemento narrativo, ecco che la durata normale da film diventa pleonastica, stancante. Come certi film con troppi effetti speciali ed una realtà narrativa qualsiasi, subordinata in partenza, al di là di certi interessi ‘professionali’, dopo il primo impatto, il nostro interesse di spettatori ‘normali’ diminuisce.

    Come spiegazione, questa, mi accontenta soltanto parzialmente, perché toccando a noi costituirci qualcosa in termini di struttura narrativa ed essendo noi in ciò liberissimi di farlo con checchessia, rimarrebbe da spiegare perché laddove c’è abbondanza di tecnologia dell’immagine ciò non riesce con facilità, o perlomeno con la facilità consueta.
    Una risposta più esauriente va trovata a monte. Perché una narrazione funzioni, mi chiedo, cosa dev’essere rispettato?

    Innanzitutto una cosa, mi rispondo: perché una narrazione funzioni occorre che fra chi narra e chi ascolta siano condivise delle regole, le regole cui devono sottostare gli eventi di quella narrazione. Badate bene: la sorpresa non solo è sempre possibile, la sorpresa è necessaria, ma per essere davvero sorpresa occorre ch’essa scaturisca dall’universo di possibilità che, almeno implicitamente, siano date dal narratore anche a chi ascolta.

    Io spettatore, insomma, per divertirmi devo co-partecipare della logica interna della narrazione cui assisto; devo co-partecipare dell’universo del discorso prescelto da colui che narra per me.

    Superman, per esempio, mi diverte perché so cosa può fare e cosa non può fare; ma non mi divertirebbe più se ad ogni sua avventura esercitasse una sua nuova facoltà, escogitata ad hoc per risolvere il caso di turno.

    Roger Rabbit dunque – contraddicendo ogni qualvolta gli pare le regole spaziali o addirittura smentendo il principio d’identità che confina gli umani con gli umani ed i cartoni animati con i cartoni animati – stanca la mia attenzione perché troppo presto mi fa capire che l’universo di cui narra non lo condivide con me: se lo tiene per sé onde arrangiare lo sviluppo della vicenda come meglio gli aggrada. Come spettatore volonterosamente attivo, mi esclude.
    >Ecco perché mi sono divertito solo durante il cartone animato iniziale – ove le regole di sviluppo, per quanto trasgressive della narrativa realistica, erano quelle dei cartoni animati del suo genere –, ed ecco perché, dopo, mi sono annoiato a morte. Un motivo, allora, c’è. È un motivo tutto mio, beninteso: non ho alcuna intenzione di affermare che valga per tutti. Il divertimento è una categoria ideologica come un’altra, sulla quale, inutile nasconderlo, pesa quel tanto di tipologico che contrassegna gli atteggiamenti di ciascuno di noi. Se davvero c’è, dunque, non voglio togliere il divertimento a nessuno. Vorrei lasciare in pace coloro che R.R. se lo sono goduto e, tutt’al più, confortare con un argomento coloro che R.R. l’hanno faticosamente subito.


    l'autore
    Felice Accame

    insegna Teoria della Comunicazione presso il Settore Tecnico della Federazione Italiana Giuoco Calcio e presiede la Società di Cultura Metodologico-Operativa. Con Carlo Oliva, dal 1985 al 2012, ha condotto “La caccia all’ideologico quotidiano” dai microfoni di Radio Popolare di Milano.

    Sue opere principali: Dire e condire (1999), La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (2002), Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica (2015), Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto (2016), L’anno 1986, L’anno 1987 e L’anno 1988 del Diario inconsapevole della caccia all’ideologico quotidiano (2019).