«[...] i due autori forniscono in modo leggibile una larga informazione intorno ai problemi e alle tematiche che formano oggi il sapere antropo-medico e, ad un tempo, una essenziale ricostruzione storica delle linee di sviluppo e delle “scuole” da cui la disciplina è venuta prendendo corpo: linee e scuole la cui conoscenza appare imprescindibile per una acquisizione problematica e critica di tale sapere. Ma non va sottovalutata una ulteriore positiva circostanza: che questa esposizione di quanto costituisce la specificità della antropologia medica è ampiamente integrata da un quadro di riferimento generale che rinvia all'impianto e ai concetti di fondo dell'insieme delle discipline antropologiche e alle procedure tecniche cui esse fanno volta a volta ricorso nella conduzione della eterogenea tipologia delle indagini empiriche. Il che significa che il volume è sostanzialmente “autosufficiente”: può essere usato, cioè, anche da chi non ha compiuto in precedenza una formazione antropologica di base, giacché gli elementi essenziali di tale formazione vi appaiono incorporati [...]»

Presentazione di Tullio Seppilli
È stato di recente osservato che in un gran numero di paesi la Antropologia medica si va affermando, pur sotto varie denominazioni, come il settore delle discipline antropologiche a più rapido sviluppo e a più rapida estesa utilizzazione operativa. Ciò è certo vero per gli Stati Uniti, in riferimento ai quali questa circostanza è stata per la prima voltarilevata, ma anche per altre nazioni altamente industrializzate e, ad esempio, per molta parte dell'America Latina.
A determinare un tale dinamismo sembrano intervenuti in larga misura, anzitutto, fattori di contesto. Lo sviluppo di sistematiche ricerche riferibili all'ambito dell'antropologia medica risulta infatti connesso – in Europa già sul finire del secolo xix – a un quadro storico in cui di contro ai grandi avanzamenti conoscitivi e operativi della medicina ufficiale, al suo progressivo controllo di tutte le attività preventive e terapeutiche legalmente riconosciute e alla forte espansione della sanità pubblica verso una tendenziale copertura della intera popolazione, perdura invece in vasti strati sociali, soprattutto rurali, una evidente estraneità o, quantomeno, una non trascurabile distanza culturale e comportamentale, rispetto ai modelli che la medicina ufficiale va via via proponendo, e quindi una oggettiva e soggettiva «difficoltà» a ricercarne il soccorso, ad accettarne integralmente la logica, e comunque a riconoscerne la pertinenza unica ed assoluta rispetto alla intera gamma di evenienze dello «star male»: difficoltà, questa, che va perciò assai al di là degli oggettivi impedimenti derivati da una insufficiente capillarizzazione dei servizi e dalla loro conseguente impraticabilità oppure da un eccessivo costo di talune prestazioni; e che si traduce, specie di fronte a certe casistiche, nel parallelo o alternativo ricorso a risposte preventive e terapeutiche «altre» – fornite da operatori e operatrici della medicina popolare tradizionale o anche da ministri del culto – giudicate invece dalla cultura egemone pure e semplici pratiche «superstiziose» prive di ogni efficacia.
In situazioni di questo tipo, caratterizzate da una forte diversità delle concezioni relative alle cause e alla natura stessa dello «star male» e, peraltro, da una più generale significativa eterogeneità fra gli orizzonti culturali di larghi strati popolari e quelli del personale medico, ciò che si determina è appunto la impossibilità di una effettiva saldatura fra le offerte dei servizi ufficiali e le attese dei possibili utenti. Per dirla sinteticamente, le offerte e le attese non riescono compiutamente a interfacciarsi.
Così le indagine sulla «diversità culturale» degli strati popolari nei confronti dei problemi della salute e del suo orizzonte cognitivo apparvero ben presto, dal punto di vista ufficiale, come un necessario strumento conoscitivo per individuare la natura e la consistenza dei «pregiudizi» che stanno alla base di difficoltà e resistenze nei confronti dei servizi ufficiali e, dunque, per progettare e condurre politiche di intervento tese a una più incisiva ed estesa espansione dei canoni e degli schemi comportamentali elaborati dalla scienza medica: in sostanza un effettivo e organico inserimento della intera popolazione nell'area di utenza della medicina «legittima».
Già in epoca positivistica, dunque, e poi, in successive ondate – via via con il costituirsi di nuovi scenari politico-sociali e di più avanzati traguardi della ricerca biomedica e con lo stesso crescente sviluppo delle scienze antropologiche – è stata progressivamente condotta una gran mole di indagini sulle rappresentazioni e le pratiche popolari concernenti la salute e la sua difesa, le cause e la classificazione delle infermità, le procedure diagnostiche e terapeutiche, le differenti figure che in vario modo e a vario titolo affrontano lo «star male», le modalità di correlazione degli utenti con queste figure e, di contro, con i medici ufficiali e le strutture ospedaliere.
Il patrimonio conoscitivo che ne è risultato, però, non concerne ormai più la sola «diversità» degli strati popolari dell'Occidente industrializzato giacché le indagini sono state via via estese a contesti territoriali di ogni parte del mondo sotto la spinta di una crescente planetarizzazione dei processi e dei problemi: la quale si riflette, in termini di programmazione sanitaria, non solo nella scala internazionale a cui di necessità si pongono allo stato attuale numerose iniziative di assistenza e di controllo ma anche, più specificamente, nel costituirsi di due nuovi terreni di attività: quello dei programmi di assistenza sanitari ai paesi in via di sviluppo (la cosiddetta «cooperazione internazionale») e quello della organizzazione di una risposta sanitaria adeguata, nei paesi industrializzati, a una crescente immigrazione da altri paesi, alla conseguente formazione di estese aree multietniche e multiculturali e dunque al costituirsi di una utenza sanitaria eterogenea, caratterizzata dalla molteplicità dei modelli concernente la salute e la sua difesa.
Una situazione di significativa eterogeneità fra gli orientamenti culturali della pratica medica ufficiale e quelli del comportamento di consistenti fasce della popolazione è dunque da tempo alla base di una domanda di ricerca antropologica – potremmo dire una domanda di ricerca di antropologia medica – finalizzata a costituire, in merito, accertamenti, interpretazioni, procedure controllate di intervento. In tal modo è venuta perciò crescendo una piattaforma conoscitiva di antropologia medica funzionale alla programmazione e al controllo di efficacia di sempre più diffuse attività rivolte a raccordare culturalmente la utenza alle istituzioni sanitarie: da un lato a calibrare la cultura e l'organizzazione dei servizi ai loro destinatari e dall'altro a indirizzare la cultura e il comportamento della popolazione nelle direzioni che allo stato della ricerca sembrano poterle garantire la massima probabilità di salute (la educazione sanitaria, tanto per intenderci o, come oggi si preferisce chiamarla, la educazione alla salute).
Peraltro, questa esigenza di una piattaforma conoscitiva di antropologia medica, e del suo costante aggiornamento e allargamento, non accenna a diminuire malgrado quanto via via realizzato, non solo a causa del progressivo coinvolgimento di sempre nuovi territori, strati sociali e gruppi etnici, ma anche per la comparsa di sempre nuovi rischi e problemi e per lo stesso continuo procedere della ricerca e della pratica medica ufficiale, contrassegnate spesso, peraltro, da veri e propri ripensamenti, talché ne risultano via via spostati i traguardi educativi e organizzativi proposti alla intera popolazione o a suoi specifici segmenti.
Tutto sommato, la strategia sottesa può considerarsi, in sostanza, quella di un uso della ricerca antropologica per fondare scientificamente la programmazione degli interventi tesi a promuovere, sui problemi della salute, una «coscienza scientifica di massa» e, quindi, una utilizzazione più razionale possibile dei servizi e delle risorse che la medicina ufficiale è in grado di fornire alla propria utenza. Può produrre in effetti anche qualcosa di più di una utilizzazione razionale di quanto già esiste: giacché la presa di coscienza dei fattori di rischio insiti nelle proprie condizioni di vita e di lavoro o la consapevolezza della indisponibilità di prestazioni e servizi che la ricerca medica prospetta invece come essenziali per la difesa della salute, tendono inevitabilmente a tradursi in potenti spinte rivendicative «dal basso» dirette a conseguire la oggettiva riduzione dei rischi e la creazione delle precondizioni oggettive indispensabili alla adozione di quello stile comportamentale che gli interventi di educazione sanitaria propongono alla popolazione.
Ma in merito occorre al medesimo tempo non nascondersi come, insieme e al di là di queste valenze tecniche e umanitarie, attraverso questa strategia e nel quadro di una dilatazione planetaria della egemonia urbano-industriale occidentale, sia «passata» anche una politica di piena ed esclusiva affermazione dei fondamenti, delle opzioni storiche, delle contraddizioni e delle compromissioni con i poteri economici e politici, in cui si è venuta esprimendo in Occidente la medicina ufficiale come istituzione.
Peraltro, lo sguardo antropologico su salute/malattia ha dovuto esso stesso superare il proprio impianto iniziale fortemente segnato dall'evoluzionismo positivistico. In certo senso la storia del costituirsi della antropologia medica come disciplina scientifica è appunto la storia del suo tendenziale affrancamento da una visione strettamente eurocentrica e da una univoca funzione di supporto ad una strategia operativa il cui obbiettivo era in sostanza quello di promuovere la semplice e pura adesione dell'utenza ai canoni stabiliti dalla medicina ufficiale e dai suoi servizi e, perciò stesso, l'abbandono di ogni diversità culturale-comportamentale nei confronti di tali canoni: una diversità sbrigativamente intesa, allora, come «pregiudizio», «superstizione», mero «attardamento» rispetto al livello ormai raggiunto dalla scienza medica e in generale dalla cultura dei ceti egemoni occidentali.
Questo processo di approfondimenti e revisioni teoriche fondato su analisi empiriche via via più sofisticate ha potuto, tra l'altro, dar conto del carattere non frammentario e non arbitrario delle singole rappresentazioni e delle singole pratiche su cui l'antropologia medica era venuta sin dall'inizio indagando, giacché ne ha messo volta a volta in luce i significativi legami di coerenza e compattezza con la concezione generale del mondo e della vita: che costituisce il punto di vista «di fondo» in base al quale una popolazione simbolizza e interpreta la realtà, le dà senso e valore e si colloca operativamente di fronte ad essa; e che si radica a sua volta profondamente nell'impianto e nelle dinamiche del sistema sociale e dunque nelle condizioni oggettive di esistenza degli uomini che lo compongono. Talché ogni operazione tendente a modificare in un determinato gruppo sociale una credenza etiologica o uno speciale rituale terapeutico – tanto per fare un esempio – mette in questione correlazioni sociali, assetti ideologici ed equilibri soggettivi assai più profondi e resistenti di quanto non sospettino spesso, ancora oggi, talune agenzie che impostano senza tenerne conto ingenue e fallimentari campagne definite di «educazione sanitaria».
Ma forse, il salto di qualità più incisivo, ciò che ha affrancato e trasformato radicalmente l'impianto disciplinare complessivo dalla antropologia medica, dilatandone largamente lo spessore critico, modificandone i rapporti con altri ambiti di ricerca e spostandone lo stesso significato operativo, è consistito in un suo deciso allargamento di campo, allorché essa ha travalicato lo studio della sola «alterità» – in sostanza, cioè, lo studio della medicina folclorica europea oppure dei sistemi medici extra-occidentali o comunque «eterodossi» – e ha iniziato ad affrontare anche, e in misura crescente, la stessa medicina ufficiale occidentale, indagata dunque come uno fra i tanti sistemi medici che si sono via via costituiti nel mondo, diverso, certo, perché fondato sul metodo scientifico (con tutti i presupposti e le implicazioni che ciò comporta), ma al tempo stesso, come gli altri, istituzione sociale e struttura di potere, e come gli altri, in ogni caso, apparato ideologico-culturale e organizzativo storicamente determinato.
Così il sistema medico occidentale dominante è stato via via esplorato, anche se forse ancora insufficientemente, in un gran numero di contesti e di varianti in base a una serie di angolazioni e direttrici. Le grandi opzioni storiche di fondo in cui esso si radica. Il carattere essenzialmente biologistico del suo paradigma. Il suo sfondo ideologico e i suoi valori impliciti. Le sue strategie di formazione dei nuovi quadri e i successivi meccanismi di promozione professionale. Le modalità di correlazione dei servizi sanitari con la utenza e gli atteggiamenti degli operatori nei confronti dei loro assistiti. Le complesse valenze e le eterogenee dinamiche del rapporto fra medico e paziente. La ritualità e gli apparati simbolici che si manifestano nel funzionamento apparentemente laico delle professioni sanitarie. Le istituzioni ospedaliere come microsistemi sociali, le loro interne stratificazioni gerarchiche e le loro «regole», i flussi comunicativi che vi si strutturano, il loro carattere sostanzialmente totalizzante e il suo impatto sulla condizione esistenziale, sui vissuti soggettivi e sullo stesso decorso clinico dei ricoverati. I legami della ricerca e delle professioni sanitarie con l'industria farmaceutica e con altri comparti industriali. La influenza della medicina ufficiale come «sistema» nella società, la sua immagine nei grandi media e i suoi effetti sulla cultura di massa e sul costume.
E in parallelo sono state via via compiute numerose esplorazioni sull'altro versante – in certo senso interno al sistema medico occidentale o ad esso in larga misura coerente –, quello costituito cioè dalle fasce di utenza – «moderne» e «metropolitane» – che a tale sistema fanno prevalentemente riferimento. I modelli culturali relativi al proprio corpo e a salute/malattia e il loro quadro ideologico e di valori. L'immaginario, le rappresentazioni e le valenze simbolico-emozionali concernenti le singole infermità, la loro etiologia e il loro decorso. I vissuti soggettivi della malattia (illness) come sua componente essenziale, anche dal punto di vista clinico, al pari dei processi biologici che la costituiscono nell'organismo (disease), e inoltre le modalità tematico-strutturali del «parlarne» (illness narratives). Le «attese» nei confronti del medico e dei differenti servizi sanitari. Infine, le condizioni materiali e i fattori socio-culturali specifici che incidono su tutti questi elementi e modellano perciò, complessivamente, l'orizzonte della soggettività individuale e collettiva concernente la salute, le insidie che la minacciano, i presìdi della sua difesa.
Non va in alcun modo sottovalutata la radicale conversione di punti di vista che ha comportato questo deciso allargamento di campo per gli sviluppi della antropologia medica.
L'antropologo, infatti, aveva sempre guardato alle rappresentazioni e alle pratiche mediche «altre» partendo dal punto di vista del «suo» stesso sistema medico, assumendolo come indiscutibile modello di riferimento e tenendolo tuttavia al riparo dallo sguardo oggettivante della ricerca: la quale si volgeva appunto alla sola «diversità» e alla sua deprecabile distanza dalla medicina ufficiale. Ora invece, come abbiamo visto, quest'ultima veniva «riposizionata» e al pari di ogni altro sistema medico posta anch'essa – in quanto prodotto storico – a possibile oggetto della ricerca antropologica. Risultava superato, così, l'acritico approccio etnocentrico che vedeva la medicina ufficiale occidentale come il punto di arrivo di un'unica linea evolutiva lungo la quale tutti gli altri sistemi medici apparivano arrestati ai gradini inferiori. E risultava radicalmente modificata, in tal modo, la prospettiva di insieme su tutti i sistemi medici oltreché, specificamente, il modo di fare storia della stessa medicina occidentale. Venivano perciò a mutare, di conseguenza, anche il senso e la funzione operativa della antropologia medica: giacché in questa nuova prospettiva unitaria non potevano non essere profondamente ridisegnate l'angolazione delle indagini, l'articolazione delle attenzioni tematiche, gli obiettivi e le strategie di uso sociale della ricerca, i criteri stessi di un bilancio comparativo sintetico delle varie risposte alla patologia. Se vogliamo riassumere il senso di questo salto di qualità, a costo di banalizzarlo, potremmo dire che la antropologia medica cessava di essere una raccolta di pregiudizi «curiosi» rilevati presso popolazioni estranee al vivere civile – utile tutt'al più come fonte di informazioni sulle concrete resistenze che si frapponevano alla estensione del sapere medico – e diveniva invece lo strumento conoscitivo per impostare efficaci risposte ai quotidiani problemi posti ai servizi dal loro stesso contesto socio-culturale, ancor più: essa diveniva anche l'angolazione – in certo senso eversiva – che consente di collocare di fronte all'intero edificio della medicina occidentale con lo sguardo scientifico, e dunque critico, dell'osservatore esterno alla sua logica istituzionale.
Questo sviluppo di una prospettiva scientifico-critico nei confronti della medicina ufficiale occidentale si accompagna e si interseca, peraltro, con l'emergere di elementi di crisi nel suo interno funzionamento e nei suoi stessi rapporti con l' utenza.
È da dire che intorno alla metà del secolo xx la medicina ufficiale occidentale – la biomedicina per indicarla sinteticamente – aveva pressoché raggiunto in molti paesi metropolitani il punto massimo della sua legittimazione culturale e della sua espansione culturale. Per valutare la entità del fenomeno occorre infatti ricordare come ancora alla fine del xix secolo perdurassero in Europa, oltre ai medici veri e proprî, una pluralità di figure terapeutiche di varia matrice e di eterogenea utenza: guaritori urbani e rurali, «mammane», flebotomi e barbieri dediti alla «piccola chirurgia», monaci dispensatori di elisir, religiosi in vario modo impegnati nelle risposte ai disturbi somatici e psichici… E occorre anche ricordare come questo processo di centralizzazione e legittimazione di tutte le attività preventivo-terapeutiche sotto il solo controllo delle facoltà mediche universitarie sia stato complesso, difficile, foriero di resistenze, conflittualità e nuove contraddizioni, e si sia aperto la strada attraverso il pesante ricorso a una articolata normativa giuridica repressiva.
In effetti, proprio le grandi conquiste conoscitive e operative della biomedicina otto-novecento nella lotta contro le patologie infettive hanno anche giocato nel senso della crisi giacché esse hanno comportato un radicale cambiamento del peso delle varie malattie, con la pressoché totale scomparsa di alcune di esse e il conseguente progressivo emergere, invece, di nuove forme infettive e di altre patologie, come ad esempio quelle degenerative: contro le quali i precedenti vittoriosi modelli di lavoro scientifico – basati sull'individuazione di un agente aggressore e sulla conseguente messa a punto di una rapida adeguata risposta farmacologica – perdono gran parte del loro mordente. Ne è risultata, così, una crescente delusione delle attese di una opinione pubblica ormai adagiata nella speranza-certezza di uno sviluppo senza limiti della medicina fondata su quei modelli.
Ma emergono anche altri elementi di crisi nello sviluppo interno del sistema medico occidentale nei suoi rapporti con l'utenza. Per certi versi, anzitutto, la sua iperspecializzazione settoriale e il sostanziale abbandono, dopo il secondo conflitto mondiale, delle tendenze al recupero di una prospettiva olistica che erano via via emerse tra le due guerre in alcuni paesi europei e, in particolare, nella medicina sovietica di derivazione pavloviana: solo l'approccio psicosomatico, in qualche misura eterodosso, sembra infatti mantenere in Occidente un impianto unitario. Questa settorializzazione e insieme il crescente ricorso a procedure diagnostiche fondate su esami di laboratorio o strumentazioni tecnologiche, introducono nel rapporto clinico una forte «oggettivazione» o «reificazione» del paziente, una attenzione sanitaria focalizzata sul processo patologico assai più che sul malato e sulla sua soggettività, una spersonalizzazione e un depauperamento emozionale della intera correlazione fra medico e paziente. Al tempo stesso, nei paesi in cui la pressione di grandi movimenti popolari per il «diritto alla salute» era riuscita faticosamente a produrre strutture di sanità pubblica aperte a tutti i cittadini, tendono a verificarsi, per una complessa concomitanza di fattori oggettivi e soggettivi, estesi processi di burocratizzazione che appesantiscono il funzionamento e l'utilizzo dei servizi e accentuano ulteriormente le fenomenologie di depersonalizzazione, anonimato e depauperamento emozionale nei rapporti diretti fra medico e paziente e, forse ancor più, nelle grandi strutture ospedaliere.
Di contro, come è noto, in tutti i paesi occidentali, – e proprio a partire dai centri urbani maggiori e più moderni – si vanno affermando le forme più diverse, e in certo senso «nuove», di cosiddetta «medicina alternativa». Si tratta appunto di forme di assai diversa origine e di differente spessore culturale: filoni eterodossi della stessa medicina occidentale, come l'omeopatia, pratiche di pranoterapia, revivalismi di vecchie tradizioni erboristiche culte o popolari, produzioni semi-industriali di strumenti di «difesa magica» e loro commercializzazione attraverso reti pubblicitarie e canali postali di distribuzione a domicilio, «aggiornamenti» delle precedenti figure di guaritori, frammenti di prevenzione o terapia – come lo yoga, l'agopuntura, la moxibustione o lo shia-tzu – espunti dalle grandi culture mediche dell'Estremo Oriente. E anche nuove o rinnovate organizzazioni di tipo religioso, con evidenti funzioni di intensa seppure ristretta risocializzazione e di forte rassicuramento psichico. Certo, questo fenomeno è sostenuto dallo sviluppo di una costellazione di valori – di segno peraltro non univoco – ormai variamente presenti in tutti i paesi occidentali: rivalutazione della natura e dell'ambiente, nostalgie «rural-folcloriche», atteggiamenti anti-industriali e più generali orientamenti di rifiuto di alcune grandi scelte che stanno alla radice della cosiddetta civiltà occidentale (la ragione, la scienza, la tecnologia) con la conseguente valorizzazione di pratiche-simbolo «rovesciate» o provenienti da altre civiltà. E anche, in particolare, modelli olistici ed empatici di correlazione interpersonale. E avversione nei confronti di ogni terapia «non naturale», intrusiva, «violenta». Ma è evidente, anche in riferimento a questa costellazione di valori, che lo spostamento di quote crescenti di popolazione verso il ricorso parallelo o alternativo alle «nuove» forme di medicina «altra» trova un forte stimolo – come ha segnalato la stessa Organizzazione mondiale di sanità – nella intensa carica emozionale e, spesso, nei lunghi tempi e nella attenzione personalizzata che a differenza della biomedicina caratterizzano in queste forme il rapporto con il paziente e con il suo contesto.
Questa impasse si sta sviluppando peraltro nel medesimo periodo in cui, a livello della ricerca, la biomedicina sta invece mettendo sempre più chiaramente in luce – specie attraverso le nuove indagini di cosiddetta psiconeuroimmunologia – la funzione essenziale del sistema nervoso centrale nel condizionamento del sistema immunitario e, in generale, delle difese e dell'equilibrio complessivo dell'intero organismo umano: di qui la rivalutazione dell'importanza degli stati emotivi e dei vissuti psichici prodotti dai rapporti interindividuali e dallo stile di vita come fattori patogeni o, viceversa, come fattori di difesa organica o di vera e propria terapia. Una problematica, questa, che ci riconduce – come ho avuto più volte occasione di sottolineare – al centro delle modalità di lavoro e dei meccanismi di efficacia di gran parte delle medicine tradizionali e alternative: in cui la determinazione rituale di intensi stati emotivi di attesa della guarigione e, in generale, un profondo coinvolgimento psichico del paziente, sembrano svolgere un ruolo essenziale. Talché nei confronti delle pratiche attuate da queste medicine sembra oggi importante avviare un attento processo di riesame critico.
L'attenzione a una prospettiva olistica focalizzata sullo psichismo e sulla soggettività psico-culturale appare in effetti largamente motivata anche da un'ulteriore considerazione, la quale spinge inevitabilmente verso un radicale mutamento della intera strategia sanitaria: che cioè, specie di fronte al peso crescente delle patologie degenerative e di lungo corso, emerge sempre più nettamente la opportunità/necessità di calibrare la pratica dei servizi alla cultura della utenza e di affidare aspetti importanti dello stile di vita e numerosi comportamenti terapeutici, e soprattutto preventivi, alla autogestione «partecipata» e consapevole dei cittadini.
I problemi emergenti, le risposte che rispetto ad essi si intravedono, lo stesso stato attuale delle conoscenze scientifiche, spingono in sostanza verso un'apertura a una profonda revisione teorico-pratica della nostra medicina in una direzione sistemica nella quale sia fatto largo spazio a una organica integrazione di quanto proviene dalla ricerca biologica con i molteplici contributi provenienti dalle discipline psico-sociali. Ma questa profonda revisione degli stessi fondamenti – anche biologici – della cultura medica e delle sue concrete espressioni operative non sarà né facile né rapida – come peraltro appare ormai chiaramente – : perché essa urta inevitabilmente contro meccanismi di resistenza fortemente radicati nei processi e nei programmi della formazione medica universitaria, nei meccanismi promozionali del prestigio e della carriera, nella organizzazione della pratica professionale, in sostanza nel sapere e nella logica complessiva su cui si regge oggi il sistema della medicina come istituzione e si strutturano le sue gerarchie e i suoi rapporti con l'economia e il potere.
Non sembra azzardato prevedere che proprio in questo complesso e dinamico quadro conoscitivo e operativo andrà sempre più chiaramente configurandosi un insostituibile ruolo di «coscienza critica» svolto dalla antropologia medica.
Ho sottolineato all'inizio che in molti paesi la antropologia medica si va affermando come il settore delle discipline antropologiche a più rapido sviluppo e a più estesa utilizzazione operativa: una utilizzazione che muove dalla semplice messa a punto di piattaforme conoscitive funzionali alla conduzione e al controllo di specifici progetti di intervento per giungere, come ho appena osservato, a un possibile ruolo di «coscienza critica» della transizione verso un nuovo assetto teorico-pratico dell'intero sistema della medicina scientifica.
Per l'Italia, la cosa sembra però vera a metà: cresce nell'ambito degli studi antropologici, specie, fra i giovani, l'interesse per le indagini di antropologia medica e per le loro potenziali implicazioni operative. Spesso, anzi, è proprio la prospettiva di tali implicazioni a motivare primariamente la ricerca e a sostenere le richieste di una sua saldatura con le istituzioni deputate alla formazione degli operatori sanitari, alla gestione dei servizi di prevenzione o terapie, alla programmazione della sanità pubblica.
Ma è assai più arretrato che in altri paesi il processo di istituzionalizzazione della antropologia medica nelle strutture universitarie, in particolare nelle facoltà di medicina, e negli stessi servizi sanitari, anche se una certa apertura si verifica nelle aree mediche già tradizionalmente interessate a elementi del sociale (l'igiene e la sanità pubblica, la epidemiologia, la psichiatria, la medicina preventiva e l'educazione sanitaria, tanto per dare alcuni riferimenti principali) e qua e là in luoghi e istituzioni in cui per qualche motivo è in atto da più tempo un certo lavoro di collaborazione.
Nel frattempo, una progressiva richiesta di antropologia medica si va facendo strada, anche nel nostro paese, in riferimento alle attività di «cooperazione internazionale» e, soprattutto, di fronte al costituirsi, sullo stesso territorio nazionale, di nuove palesi situazioni di diversità culturali, e dunque di eterogeneità delle esigenze e delle attese, conseguenti alla crescente immigrazione dalle più varie aree del cosiddetto «sud del mondo» e alla connessa formazione dei primi elementi di una società multietnica. Così, ancora una volta, una condizione «eccezionale» ripropone la questione della calibratura culturale dei servizi alla loro utenza, che è in realtà, sempre più chiaramente, una questione di interesse generale, concernente cioè non solo talune minoranze ma la generalità dei cittadini.
Certo, ai fini della promozione della ricerca e dell'uso sociale dell'antropologia medica il terreno della formazione appare prioritario. Occorre saldare la preziosa tradizione italiana degli studi di medicina popolare e di quelli di antropologia applicata alla educazione sanitaria con le problematiche, gli approcci metodologici, le acquisizioni conoscitive, le esperienze di lavoro, che costituiscono il patrimonio «internazionale» della antropologia medica di questi anni. E intorno a questa saldatura occorre formare i nuovi quadri di ricerca e intervento. In tale prospettiva questo volume appare in certo senso come un vero modello di risposta. Innanzitutto, perché esso è chiaramente il frutto di una maturata assunzione critica dei molteplici filoni e delle multiformi esperienze che costituiscono oggi il patrimonio disciplinare-specialistico della antropologia medica. E perché vi si delinea, appunto, una organica saldatura degli sviluppi attuali con la tradizione italiana di ricerca. Non è cioè un testo importato.
In secondo luogo, perché i due autori forniscono in modo leggibile una larga informazione intorno ai problemi e alle principali tematiche che formano oggi il sapere antropo-medico e, ad un tempo, una essenziale ricostruzione storica delle linee di sviluppo e delle «scuole» da cui la disciplina è venuta prendendo corpo: linee e scuole la cui conoscenza appare imprescindibile per una acquisizione problematica e critica di tale sapere. Ma non va sottovalutata una ulteriore positiva circostanza: che questa esposizione di quanto costituisce la specificità della antropologia medica è ampiamente integrata da un quadro di riferimento generale che rinvia all'impianto e ai concetti di fondo dell'insieme delle discipline antropologiche e alle procedure tecniche cui esse fanno volta a volta ricorso nella conduzione della eterogenea tipologia delle indagini empiriche. Il che significa, in concreto, che il volume è sostanzialmente «autosufficiente»: può essere usato, cioè, anche da chi non ha compiuto in precedenza una formazione antropologica di base, giacché gli elementi essenziali di tale formazione vi appaiono in qualche modo incorporati.
In terzo luogo, il volume appare il risultato, nei due autori, di una conoscenza della antropologia medica fondata su precise casistiche di ricerca empirica e, soprattutto, su una esperienza dei servizi e dei loro reali problemi operativi vissuta «dal di dentro», senza fratture, perciò, fra il livello delle concettualizzazioni e la loro evidente radicazione nella concretezza dei problemi professionali.
È da dire, infine, che questo volume è specificamente rivolto ai corsi di formazione per infermieri: i quali – forse per la loro prevalente matrice sociale e per la posizione intermedia e il loro ruolo di intermediazione fra medici e pazienti nelle strutture gerarchiche e nei flussi di interna comunicazione delle strutture sanitarie – appaiono, fra le professionalità costitutive del nostro sistema medico, quella probabilmente più aperta alla dimensione sociale della medicina. Questa destinazione del volume sembra dunque, oltreché emblematica, largamente funzionale. Ma la sua possibile udienza appare tutto sommato assai più vasta. Essa in realtà può estendersi sia alle altre professionalità sanitarie sia a coloro che dentro o fuori dalle università desiderano acquisire in questo campo una specifica preparazione.
Si tratta, in merito – ed è bene sottolinearlo – del primo contributo italiano. Esso assume perciò una funzione pilota.


indice del volume
Introduzione – Antropologia culturale e Nursing
  • Assistenza infermieristica, olismo e cultura
  • L'infermiere come mediatore culturale: l'importanza del concetto di cultura e l'approccio olistico
  • L'infermiere come osservatore sul campo
  • Antropologia e nursing: le differenze
  • Elementi universali o approccio relativista?
  • Specializzazioni infermieristiche e approccio antropologico
  • Il nursing transculturale
Parte prima – Definizioni
  • Cultura
    1.1. Il concetto di cultura: una definizione antropologica
    1.2. Trasmissione culturale e inculturazione
    1.3. Etnocentrismo: gli «altri» visti da «noi»
    1.4. Tradizione, innovazione, mutamento: acculturazione e deculturazione
  • Norma sociale
    2.1. La norma: definizione
    2.2. L'arbitrarietà e la variabilità delle norme
    2.3. Normale e patologico
  • Valore sociale
    3.1. L'analisi socioantropologica della dimensione valoriale
    3.2. Valori e razionalità
    3.3. La problematica sociale nei valori
  • Ruolo sociale
    4.1. Il ruolo sociale
    4.2. Il ruolo di malato
    4.3. I limiti del modello parsonsiano
    4.4. La risposta comportamentale alla malattia
  • Controllo sociale e devianza
    5.1. Il controllo sociale: le pressioni collettive alla conformità
    5.2. La devianza: la fuga individuale dalla conformità
  • Rito e simbolo
    6.1. Il rito 109
    6.2. Cerimoniale e rituale
    6.3. Il simbolo
    6.4. Il simbolo come deposito di regole sociali
    6.5. Significato manifesto e polarizzazione del significato
    6.6. Significato operazionale e posizionale
    6.7. Il simbolo come strumento di comunicazione sociale
    6.8. Limiti di un approccio funzionalista ai riti e ai simboli
    6.9. Simbolismo e linguaggio
    6.10. Il dispositivo simbolico
    6.11. Riti individuali e riti di gruppo
    6.12. Categorie di riti
    6.13. I riti di passaggio (riti di transizione sociale)
    6.14. Struttura dei riti di passaggio
    6.15. I riti di introduzione
    6.16. L'ospedalizzazione come rito di passaggio
    6.17. I riti di iniziazione
    6.18. I rituali terapeutici
    6.19. I riti funebri ed il significato culturale della morte
    6.20. La morte e il concetto di persona
    6.21. Il morente, l'infermiere e l'ospedale
  • Salute e malattia
    7.1. La salute: un fenomeno multidimensionale
    7.2. Salute/malattia: quattro definizioni
    7.3. I rischi della medicalizzazione
    7.4. Il corpo, la salute, e la malattia: metafore e rappresentazioni
    7.5. Disease, illness, sickness
    7.6. L'approccio interpretativo alla malattia
  • Dolore, sintomo e cultura
    8.1. Il dolore: le componenti culturali
    8.2. Il dolore del corpo tra cultura ed esperienza
    8.3. Dolore e comunicazione
    8.4. Dolore, pratiche mediche e pratiche sociali
    8.5. Il dolore cronico e il modello del «paziente manipolativo»: una prospettiva antropologica
    8.6. Sintomo e cultura: un modello bidimensionale
    8.7. Epidemiologia, sistemi terapeutici popolari e analisi centrata sul significato
    8.8. Il caso della donna cinese
    8.9. Sintomo, significato e cultura
Parte seconda – Metodologia
  • Metodo scientifico e ricerca etnografica
    9.1. L'etnografia come metodo di ricerca
    9.2. Gli «oggetti» dell'etnografia: ricerche a confronto
    9.3. Fasi e caratteristiche della ricerca etnografica
    9.4. Problemi metodologici in etnografia
  • L'osservazione in etnografia
    10.1. Ricerca etnografica e osservazione strutturata
    10.2. I ruoli dell'osservatore
    10.3. Overt e covert: l'etnografia tra relazionalità e mimetismo
    10.4. Tecniche e procedure per l'osservazione
    10.5. L'osservazione: analisi della tecnica
  • L'intervista in etnografia
    1.1. L'intervista etnografica: una relazione fiduciaria
    11.2. L'intervista overt: una comunicazione in relazione
    11.3. L'intervista covert: un'informazione in situazione
    11.4. La dimensione relazionale nell'intervista etnografica
  • 12. Orientamenti per l'analisi dei dati etnografici
Parte terza – Analisi
  • Van Gennep in sala operatoria
    13.1. Simboli da indossare
    13.2. Le metafore chirurgiche
  • L'identità ignorata. Osservazioni sociologiche sul paziente ospedalizzato
    14.1. Noi e gli altri: identità individuale e organizzazione sociale
    14.2. Il paziente in ospedale: identità autopercepita e identità ignorata
    14.3. Conclusioni
  • La dialisi: un terreno terapeutico di confine
  • Aspetti socioculturali nella donazione e nel trapianto di organi
  • Stereotipi nella rappresentazione culturale della professione infermieristica
    17.1. Stereotipi e immagine dell'infermiere nei film
    17.2. Stereotipi e immagine dell'infermiere nella letteratura e nella pubblicistica
    17.3. L'immagine dell'infermiere nella letteratura professionale
    17.4. Sondaggio d'opinione su stereotipi e immagine dell'infermiere
Appendice
  • Tra magia e scienza: l'approccio intellettualista
  • L'approccio funzionalista
  • Credenze e razionalità, eziologia ed efficacia nell'antropologia medica
  • Psicopatologia e cultura
  • Il concetto di adattamento e il paradigma empirico
  • I percorsi terapeutici e le rappresentazioni della malattia
  • La malattia, tra ordine biologico e ordine sociale
  • Modelli cognitivi e malattia
  • Gli studi interpretativi
  • L'approccio «critico» all'antropologia medica: gli ultimi dieci anni
  • Le medicine popolari: gli studi italiani
Bibliografia generale


gli autori
Donatella Cozzi è dottore di ricerca in Scienze Etnoantropologiche e collabora da vari anni come docente di Antropologia culturale con varie Scuole di Infermieri professionali del Friuli-Venezia Giulia.
Collabora con la cattedra di Antropologia culturale dell'Università degli Studi di Udine.

Daniele Nigris è dottore di ricerca in Sociologia, teoria e metodologia del Servizio sociale presso l'Università degli studi di Trieste.
Conduce attività di ricerca nell'ambito dei servizi e delle politiche sociali e partecipa all'attività di gruppi di studio sulla filosofia e la metodologia delle scienze sociali.